Le immagini delle Matronae
A nord delle Alpi le pietre usate per le iscrizioni sono in molti casi scolpite con bassorilievi, in cui le Matronae sono raffigurate secondo un’iconografia che presenta gruppi di divinità, più spesso sedute che erette, in atteggiamento quasi ieratico, spesso collocate in un ambiente campestre, con canestri di fiori e frutta e, talvolta, con corni dell’abbondanza. Inoltre le Madri non di rado tengono in braccio figure di bambini. Il numero delle Dee raffigurate è quasi sempre tre, ma non mancano casi di due e persino quattro figure: le immagini confermano il carattere collettivo di queste divinità, in quanto nessuna delle dediche si rivolge alla singola Madre.
Le scene rappresentate nei bassorilievi transalpini sembrano, almeno a prima vista, in contrasto con il contenuto delle iscrizioni, poiché, mentre i testi sottolineano la funzione protettrice delle Matronae, le immagini evidenziano piuttosto la loro funzione di Dee della fecondità, sia agraria sia familiare.
In realtà la contraddizione è solo apparente. La funzione fondamentale protettrice, non a caso sottolineata dalle iscrizioni, può, infatti, includere anche la salvaguardia o la concessione di beni materiali connessi con la prosperità economica (e nell’antichità anche una prole numerosa era un bene economico); sul piano figurativo essa poteva trovare un sufficiente segno di riconoscimento nella rappresentazione dei frutti della terra e del grembo delle donne.
Nella Gallia cisalpina, oltre a quello d’Angera, sono stati scoperti colo tre bassorilievi connessi con dediche alle Madri. Se si esclude il caso del rilievo rinvenuto nei pressi di Bene Vagienna (Cn), ora purtroppo perduto, che presentava uno schema iconografico simile a quelli delle aree a nord delle Alpi, gli altri presentano indubbie differenze rispetto alle raffigurazioni più diffuse e molte caratteristiche in comune tra loro. In tutte tre le opere, il numero delle figure femminili è sempre superiore a tre; esse non portano attributi connessi alla prosperità agricola o umana, non mostrano rigida e austera compostezza, ma piuttosto un leggiadro movimento di danza a braccia incrociate.
Nel bassorilievo rinvenuto a Pallanza (Vb), poco distante da Angera, sulla sponda opposta del Verbano, che lo schiavo Narcisso fece eseguire tra il 37 e il 41 d. C. per la salus dell’imperatore Caligola, tre fanciulle, rappresentate su una delle facce più grandi dell’opera, avanzano verso destra tenendosi per mano, mentre, sulle facce laterali, altre due giovani sembrano prolungare il corteo danzante. Tutte le figure di quest’opera sono rappresentate di profilo e, come ad Angera, niente le distingue l’una dall’altra, né per la statura, né per le vesti o le acconciature.
Cinque fanciulle, tutte insieme sotto all’iscrizione, compaiono invece nel rilievo scoperto ad Avigliana (To), all’imbocco della valle di Susa, nel quale le facce minori sono occupate di un orcio e di una patera. In quest’opera, dedicata alle Matronae da un certo Ti. Giulio Prisco Aceste, quattro delle Dee appaiono con le braccia intrecciate, ma sono viste di fronte, quasi che il movimento di danza debba ancora avere inizio, mentre la figura all’estrema destra pare isolata e non stringe le mani delle altre.
I bassorilievi associati al culto delle Matronae nella Gallia Cisalpina pongono numerosi problemi interpretativi. Il primo di questi consiste nello schema iconografico, completamente differente rispetto alle opere analoghe rinvenute oltralpe, al punto che alcuni studiosi si sono domandati se i personaggi femminili raffigurati non siano in realtà delle giovani devote piuttosto che le Madri stesse. Franca Landucci Gattinoni rileva che l’atteggiamento delle figure scolpite ‘ricorda la nota scena di danza della più famosa tomba di Ruvo di Puglia, datata alla seconda metà del IV sec. a. C., frutto raffinato di una cultura dell’Italia Meridionale grandemente influenzato dalla civiltà greca’ e conclude che i rilievi della Cisalpina costituiscono la prova di un ‘continuo processo di osmosi tra le popolazioni celtiche sottomesse a Roma e quelle italiche e latine giunte nell’Italia Settentrionale’ dopo la conquista. Conseguenza di questo processo d’assimilazione sarebbe l’adozione del culto da parte dei nuovi arrivati, ma attraverso l’identificazione delle Matronae con le Fata (o Fatae) e le Parche latine, che avevano influenza sugli umani destini, e secondo un nuovo tipo di raffigurazione delle Dee, lontano dalle consuetudini trasalpine e simile ai modelli tipici delle arti figurative delle aree centromeridionali della penisola. In effetti, sia le Parche che le Fata furono venerate anche nella Gallia cisalpina, dove sono state scoperte cinque iscrizioni a loro dedicate. Una di queste, rinvenuta a Brescia, sembra avvicinare le divinità romane alle Matronae, perchè rivolge alle Fata un appellativo celtico utilizzato anche per le Madri: dervones, sul quale si avrà occasione di tornare. Le conclusioni della studiosa toscana sembrano, almeno in gran parte, condivisibili, ma non spiegano tuttavia perchè nella Gallia cisalpina le Madri celtiche (o le Fata latine) siano divenute proprio delle fanciulle danzanti.
Il secondo problema posto dai rilievi cisalpini è, infatti, la contraddizione tra il nome delle Matronae, che richiama la loro funzione protettrice per il devoto, come ci si aspetta da delle madri, e la loro raffigurazione, la quale, sia dal punto di vista fisico, sia nell’atteggiamento, sembra più convenire a delle giovani, si potrebbe quasi dire a delle vergini. In realtà, nella mentalità antica, il discorso andrebbe rovesciato: una divinità femminile (o più Dee, come nel nostro caso) non protegge in quanto madre, ma è Madre in quanto Dea. Si potrebbe dire, con Goethe e Pestalozza, che la Madre in effetti rappresenta l’Eterno Femminino, il principio spirituale espresso sotto forma femminile, che non può essere rinchiuso nella mera funzione riproduttiva o protettrice. Così una Dea può essere Madre anche se è vergine, come accade in molte tradizioni; anche se, insanguinata, danza su un cadavere, come l’indiana Kali; anche se è Dea della guerra, come l’irlandese Morrigan; la Potnia minoico-micenea è insieme dolce, sensuale e terribile, maga, umana, divina e ferina. Quel che conta è il valore dell’appellativo sul piano sacrale, non su quello profano.
Nelle raffigurazioni transalpine le Dee sono quasi costantemente tre, ma, s’è visto, questa regola conosce delle eccezioni. In effetti, presso i Celti, come nella maggior parte dei popoli indoeuropei, ma con una forza ancora maggiore, il numero tre ha sempre rivestito una particolare rilevanza: nelle letterature insulari, un modo privilegiato di mandare a memoria e trasmettere il sapere tradizionale era l’utilizzo di triadi di fatti e personaggi; frequentemente i racconti irlandesi o gallesi presentano gruppi di tre personaggi con attributi simili oppure Dei o eroi che i manifestano sotto tre forme diverse; in tutto il territorio celtico sono numerose le rappresentazioni d’esseri tricefali oppure con tre volti. La maggior parte degli esperti ritiene che la triplicazione rappresenti per i Celti un potenziamento del concetto, o della persona, umana o divina, cui si riferisce. Il tre costituirebbe allora una manifestazione della molteplicità in quanto nozione subordinata all’unità fondamentale dell’essere: nella triskel, uno dei simboli più diffusi dell’iconografia celtica, i tre bracci ricurvi partono da un unico centro e verso di esso sembrano voler riorientare le loro spire dopo aver toccato il cerchio esterno.
I bassorilievi della Gallia cisalpina, anche in questo caso, contrastano con l’iconografia prevalente delle Madri. La tipizzazione sacrale ad Angera, Pallanza e Avigliana è ottenuta attraverso un procedimento diveso: non la triplicazione, ma la ripetizione per un numero indefinito di volte (non importa quante) dell’identica figura, potenziata magicamente dalla reiterazione e, ancor di più, dall’intreccio danzante con le altre.