L’iconografia delle Matrone: le Signore dell’Occidente e del destino
Le Matres/Matronae appaiono frequentemente attestate nelle dediche sacre d’età romana nelle Gallie: signore della sorte, sono spesso definite da aggettivi che le legano a popoli, città o a particolari piante (come le Dervonnae, le ‘madri delle querce’) o a fonti (come le Aquanae di Naquane presso Capo di Ponte). In Piemonte il ritrovamento di un rilievo rupestre a Tuberghengo di Viù di Lanzo (Mulini Ninin) dimostra l’origine preromana anche sul piano iconografico nello schema più semplice del culto gallo-romano delle Matrone, sempre ipotizzata ma mai verificata in riscontri diretti. In realtà fin dalle più antiche religioni indoeuropee si collocava all’Occidente, dove il sole tramontava iniziando il suo viaggio notturno negli Inferi (nel regno dei Morti) una triplice figura femminile che riproponeva la triplicità della luna e la sua fondamentale capacità di fissare il tempo calendariale, definendo il corso della vita degli uomini.
Nel mondo greco, fin dalle descrizioni di Omero ed Esiodo, le Moire appaiono denominate come Cloto (‘la filatrice’), Lachesi (‘la misuratrice’) ed Atropo (‘colei che non si può evitare’), che recide con una cesoia il filo stesso. Nel mondo romano le Parche si intrecciano coerentemente nelle loro valenze a divinità di derivazione italica come la Fortuna Primigenia (che determina il destino fin dalla nascita), Vittoria (come dea della fortuna in particolare nel mondo militare, ma non solo), Diana-Ecate (come dea della morte e dell’oltretomba), i Fati e le Fate (prima maschi poi femminili, in numero di tre, così denominati perchè detengono il fato degli uomini). A questo stesso modello, sicuramente molto antico, si riferiscono anche le Matrone del mondo celtico ed alpino, e le Norne germaniche, trasformate in molte leggende fin dal Medioevo in tre streghe, come nel Macbeth di Shakespeare. L’importanza del modello originario di queste dee fin nella più antica mitologia indoeuropea è ancora percepibile nel contrasto del sistema mitologico greco dove, al tentativo di costituire Zeus come ‘signore delle Moire’ e dunque arbitro del destino, si contrappone l’indicazione riecheggiata anche in un oracolo pitico che lo stesso Zeus debba sottostare alle Moire in quanto dee antichissime, nate per partenogenesi dalla grande dea Ananke (‘necessità’), detta anche ‘la possente Moira’ ed identificata talvolta con Afrodite Urania, ancora con richiami lunari.
Il fuso ed il filo di lana diventano così simboli della vita stessa degli uomini e la capacità tipicamente femminile di creare il filato viene ad essere direttamente confrontata con la capacità di dare origine, dal seme maschile, alla vita stessa. In diverse aree pre-cristiane l’immagine della filatrice e della dea della vita e della fertilità della natura appaiono dunque indissolubilmente legate. Il mondo cristiano manterrà tracce di questa concezione nella figura devozionale di sant’Anna, madre della Madonna e protettrice sia delle partorienti che delle sarte o filatrici, figura tutelare delle nascite e dei primi momenti di vita dei bambini (come la Fortuna Primigenia nel mondo romano).
Ma è soprattutto nelle leggende dell’Europa occidentale e del mondo alpino che si trova la traccia di questa tradizione delle madri del destino umano. La figura della Madre che recide il filo della vita diventa così logicamente la strega per eccellenza e la Morte. Nello schema della fiaba di Rosaspina o della Bella Addormentata nel Bosco si incrocia ad un modello, che identifica nel fuso un’evidente simbologia sessuale, uno schema di base che vede invitare alla nascita di una bambina un numero incompleto di fate (originariamente due su tre, poi dodici su tredici): la terza/tredicesima, offesa, maledice la bambina pronosticando la sua morte appena giunta alla pubertà per la puntura di un fuso, ma la maledizione sarà mitigata dalle fate amiche in un sonno che blocca il tempo togliendo il potere della fata cattiva fino alla soluzione finale del bacio del principe. L’immagine della cattiva fata/matrigna che uccide, in modo peraltro improbabile, con il fuso o con la rocca ritorna anche nella leggenda agiografica piemontese della pastorella Panacea di Quarona, patrona della Valsesia e di Gemme, uccisa secondo la tradizione nel 1383.
Così è facile comprendere come l’immagine della Vecchia tra le Alpi Biellesi e l’Ossola riprenda questa figura femminile che ha trasformato la divinità antica in strega portatrice di morte. Dalle leggende delle valli del Sempione sopra Domodossola emerge infatti la figura diabolica di una orrida vecchia con il fuso che, in combutta con il diavolo del Monte Biellesi ed in associazione talvolta con due altre comari, attira le giovani, mentre nel Biellesi la Vecchia con il fuso e l’orso (animale sacro alla divinità guerriera e fulminatrice posta dalla tradizione celtica sulla cima dei monti) non solo è effigiata presso l’omonimo Lago sopra Piedicavallo ma addirittura viene riconosciuta come precedente signora dei Monti di Oropa, fino al punto che la tradizione popolare locale del pellegrinaggio mariano prevedeva addirittura l’omaggio alla Vecchia presso l’omonima fontana ai piedi della salita ad Oropa, in ossequio scaramantico al suo antico dominio sui luoghi.
Più difficile è ricostruire il modello iconografico più antico, anteriore al canone gallo-romano di rappresentazione delle Matrone secondo modelli di tradizione ellenistica, che spaziano dalle Ninfe, alla Tyche/Fortuna, alle dee in trono in genere. Le figure di Tuberghengo offrono una straordinaria possibilità di cogliere il momento di passaggio alla antropomorfizzazione di queste divinità tradizionali, anche se ancora in forme schematiche e non naturalistiche. Pur secondo iconografie schematizzate tipiche dell’arte celtica ed in una resa approssimata, le Madri di Viù sono dipendenti da influenze etrusco-italiche. Nella tradizione celtica l’iconografia divina tende a risultare non antropomorfica, per lo più collegata ad animali mitici ed è probabile che le prime raffigurazioni delle tre madri le vedessero come uccelli (la tradizione celtica conserverà anche nelle leggende successive l’idea che le donne dotate di poteri magici tendessero a trasformarsi in uccelli ed in genere gli uccelli necrofagi erano ritenuti i raccoglitori delle anime dei defunti sui campi di battaglia), in particolare come le tre ‘gru’ che insieme con il ‘Toro del temporale’ si collocano appunto all’occidente, nella zona dove il sole tramonta. E’ questa l’idea alla base della definizione della divinità gallica Tarvos Trigaranos, dove si incontrano il toro della tradizione celtica più antica ed il termine mutuato dal greco (attraverso la colonia di Marsiglia) di Tricaranos, ‘a tre teste’, appellativo di Gerione nella tradizione ellenica; sfruttando le molteplici varietà di significato del radicale indoeuropeo *kara ‘sommità, testa, corno, punta’ questa figura diventa alternativamente nel mondo celtico un personaggio a tre facce o tre teste in assalto, un toro a tre corna, un toro con tre gru. Un cinturone in lamina di bronzo del V sec. a.C. da Giubiasco in Canton Ticino ci restituisce così l’immagine dei tre uccelli / fate insieme con un personaggio maschile in assalto e a quattro figure danzanti mentre il noto pilastro votivo dei battellieri della Senna di età tiberiana ritrovato tra le fondazioni di Notre Dame a Parigi ci rimanda alla figura di un toro con tre uccelli.
F. M. Gambari