I Celti: Strenui ed eroici difensori dei popoli liberi
Queste le parole di Vercigetorige, il grande condottiero dei celti transalpini, riferiteci dal suo implacabile avversario, Caio Giulio Cesare, nel De Bello gallico:
“Bisogna inoltre per la comune salvezza dimenticare gli interessi privati; bisogna incendiare i villaggi e le abitazioni tutto intorno e in ogni punto dove si possa credere che essi (i Romani) vengano a foraggiare… Se tali mezzi vi paiono gravi e duri, dovete stimare molto più grave vedere i figli e le mogli tratte in servitù ed uccise; ché tale è il destino dei vinti”.
Parole dure, quelle di chi ben sa che è in gioca il destino di una nazione.
Aggiunge Cesare:
“al singolare valore dei nostri soldati si opponeva, da parte dei Galli, ogni tipo di espedienti, com’è proprio di gente di straordinaria destrezza e fatta apposta per imitare e riprodurre quello che vedono fare da altri”.
Scrive il professor Giuseppe Zecchini nel suo libro ‘Vercingetorice’ (pag. 70-72):
“Passato un mese, l’armata di soccorso non si intravvedeva ancora e dentro Alesia si deliberò sul da farsi. Tra chi proponeva la resa e chi una sortita dimassa, un nobile averno, Critognato, pronunciò un discorso che Cesare riporta in forma diretta, sia pure dopo averlo elaborato sul piano letterario, e che resta un’eccezionale testimonianza sulle idee e i sentimenti di questi ultimi combattenti per una Gallia indipendente:
(77) “Nulla dirò” disse “circa la proposta di coloro che dànno il nome di resa alla più turpe schiavitù; non li considero neppure cittadini e non voglio neppure ascoltarne il parere. Io parlo soltanto a coloro che vogliono una sortita, perché nella loro proposta mi sembra, e certo vi consentite voi tutti, che sia ancor vivo il ricordo dell’antico valore. Mollezza d’animo è, non valore, il non saper sopportare un poco di carestia. E’ più facile trovare chi si voti alla morte, che non chi sia pronto a sopportare il dolore. Ed io potrei anche accettare la sortita, tanto è il mio senso dell’onore, se non vedessi in pericolo nient’altro che la nostra vita. Ma prima di deliberare, noi dobbiamo volger lo sguardo a tutta la Gallia, che abbiamo sollevato per recarci aiuto. Pensate: che animo sarà quello dei nostri congiunti, dei nostri consanguinei, se, dopo il massacro di ottantamila uomini dentro a questa piazza, essi saranno costretti a combattere, si può dire, sopra i nostri cadaveri? Ah, non vogliate privar del vostro aiuto chi ha obliato il proprio rischio per la vostra salvezza; non vogliate, per la vostra stoltezza, per la vostra temerità, per la vostra debolezza d’animo gettare a terra tutta la Gallia e consegnarla a un eterno servaggio. Perché non son giunti proprio nel giorno fissato, dubitate dunque della loro fede e della loro costanza? E che? Credete forse che i Romani lavorino senza posa, quotidianamente, alle fortificazioni esterne, così, per passatempo? Se non potete averne la sicurezza dai loro messaggi, perché è chiuso ogni passo, vi provi il comportamento dei Romani che il loro arrivo è vicino; dei Romani, che vinti dal terrore di questo arrivo, lavorano febbrilmente e giorno e notte. Qual è dunque il mio parere? Fare quello che i nostri antichi fecero nella guerra, ben meno grave di questa, dei Cimbri e dei Teùtoni. Essi, ricacciati nelle loro fortezze, e torturati da una carestia come questa, si sostentarono con le carni di coloro che l’età rendeva inabili alla guerra, e non si consegnarono ai nemici. E se già non ne avessimo l’esempio, io proporrei di darlo qui la prima volta per amore della libertà, e di tramandarlo come stupendo ai posteri. Perché, che cos’ebbe quella guerra di comune con questa? I Cimbri, devastata la Gallia e copertala di sciagure, pur una buona volta uscirono dal nostro paese e cercarono altre terre; diritti, leggi, terreni, libertà, tutto essi ci lasciarono. Ma i Romani, gelosi di tutti coloro di cui conoscono la nobile fama e la potenza guerriera, che altro chiedono o vogliono, se non stabilirsi nelle loro campagne e nelle loro città ed infliggere loro un eterno servaggio? Nessuna guerra con altro scopo essi fecero mai. Che se voi ignorate ciò ch’essi fanno in lontani paesi, guardate la Gallia a noi vicina, che, ridotta a provincia, privata dei suoi diritti e delle sue leggi, soggetta alle scuri, si trova oppressa da una servitù senza fine”.
Commenta Zecchini:
“Se da un lato Cesare vuole sottolineare, attraverso la proposta avanzata da Critognato di nutrirsi tramite antropofagia, la ferina disumanità di questi combattenti gallici, dall’altro egli li mostra consapevoli che la conquista romana sarebbe stata duratura, che avrebbe implicato per i vinti la rinuncia ad ogni forma d’indipendenza, che infine la natura stessa del potere di Roma non tollerava l’esistenza di popoli liberi e forti in prossimità del suo dominio”.