Chi erano i Celti Golassecchiani
Fin da quando, negli anni sessanta e settanta del secolo scorso, iniziarono le ricerche scientifiche sulla cultura di Golasecca, gli studiosi non tralasciarono di formulare ipotesi di attribuzione etnica, compito tutt’altro che semplice poichè, per quanto riguarda lo spazio geografico interessato dalla diffusione di questa cultura, le fonti antiche non sono né copiose né molto esplicite.
L’orientamento degli studiosi si polarizzò subito su due ipotesi schematicamente contrapposte: gli uni riconoscevano nei portatori della cultura di Golasecca popolazioni celtiche, gli altri popolazioni liguri di stirpe mediterranea precedenti la grande invasione gallica del 400 a.C.
Tra i sostenitori della prima tesi annoveriamo il glottologo Bernardino Biondelli, a cui si deve la pubblicazione della tomba di guerriero scoperta nel 1867 a Sesto Calende, Alfonso Garovaglio, gli studiosi francesi Alexandre Bertrand e Salomon Reinach, tra i paladini della seconda tesi innanzitutto Pompeo Castelfranco e Luigi Pigorini.
L’attribuzione ai Liguri fu generalmente accettata e condivisa in seguito anche da studiosi come Randall Mc Iver, Giovanni Patroni e Pia Laviosa Zambotti.
Tuttavia anche i sostenitori della tesi ligure oscillarono frequentemente verso posizioni più sfumate, con motivazioni del tutto diverse tra loro che non è il caso di riprendere dettagliatamente in esame. Già nel 1892 Pigorini avanzava l’ipotesi che si trattasse di popolazioni celtiche e non liguri, mentre il Castelfranco espresse l’opinione che i Golasecchiani altro non fossero che gli Insubri, popolazione celto-italica già da tempo stanziata nel territorio del Ticino quando si verificarono la prime invasioni galliche di età storica. Anche Patroni sosterrà che entro la vasta e largamente diffusa stirpe ligure i Golasecchiani costituivano “un ethnos speciale e localizzato, con propria individualità” da identificare con gli Insubri, e Laviosa Zambotti, che in un primo tempo aveva sostenuto l’imporatanza dell’ethnos ligure nella cultura di Golasecca, più tardi ammetterà di dover esaminare la possibilità della sua lenta trasformazione in ethnos celtico.
Nel frattempo divennne gradualmente disponibile per una parte del territorio interessato dal fenomeno cultura di Golasecca una documentazione epigrafica che, per quanto limitata, poco fruttuosa e tarda (II-I secolo a.C.), costituiva un`inevitabile punto di riferimento per affrontare questo problema. Le iscrizioni cosidette leponzie, redatte nell’alfabeto di Lugano e raccolte organicamente in un corpus da Joshua Whatmough (1933) mostravano, accanto a tracce di uno strato non indoeuropeo attribuito al Ligure, numerosi elementi indoerupei, per cui sembrava di poter riconoscere una lingua in cui il processo di indoeuropeizzazione non era ancora completamente affermato e veniva creata per queste popolazioni l’etichetta di “Celto-Liguri”, non priva di rispondenza in qualche fonte antica (Strabone, IV, 6-3).
E’ noto come si debba al Devoto la definizione di un peculiare strato indoeuropeo denominato “leponzio”, che avrebbe costituito il primo processo di indoeuropeizzazione del mondo ligure, e come alcuni studiosi abbiano proposto di ricollegare questo fenomeno alla cultura di Canegrate e a quella di Golasecca, che ne costituisce l’ulteriore sviluppo nell’Età del Ferro (Ludwig Pauli 1971).
Il concetto di leponzio ha poi via via assunto significati diversi, legandosi sempre più alle iscrizioni redatte in alfabeto di Lugano e diffuse soprattutto nel Comasco, nella Val d’Ossola e nel Canton Ticino.
Michel Lejeune ha potuto stabilire, in manire ormai definiva, l’appartenenza di questa lingua alla famiglia delle lingue celtiche, mentre quei fenomeni fonetici che costituivano la peculiarità del leponzio di Giacomo Devoto e che sono documentati soltanto a livello onomastico e topomastico devono essere ascritti al ligure propriamente detto.
Gli sviluppi assunti dalla questione leponzia in campo linguistico hanno tardato a ripercuotersi sul problema etnografico della cultura di Golasecca a causa dell’errata convinzione che nessuna iscrizione leponzia fosse più antica del IV secdolo a.C., anzi che la stessa iscrizione di Prestino presentasse, per quanto riguarda la grafia, innovazioni recenziori rispetto al più antico alfabeto di Lugano. Se così fosse stato, niente avrebbe impedito di vedere nella gallicità delle iscrizioni leponzie un riflesso dell’avvenuto stanziamento dei Galli nella pianura padana in seguito all’invasione del 388 a.C.
Ma così non era. Negli ultimi dieci anni, attraverso la revisione dei contesti delle vecchie scoperte e grazie a nuove scoperte nell’abitato protostorico dei dintorni di Como e a Castelletto Ticino, si sono accumulate testimonianze evidenti secondo la quali le più antiche iscrizioni leponzie risalgono al VI e al V secolo a.C. e sono da riferire alle genti della cultura di Golasecca.Alfabeto Leponzio Attualmente è possibile distinguere tra un alfabeto più antico, del VI-V secolo, e uno recente, databile al III-I secolo a.C. Il primo è caratterizzato dalla presenza del digamma e del theta puntato e dalla lettera A resa con la barretta trasversale che unisce le due aste da sinistra verso destra, come nell’alfabeto etrusco. Nel più recente, essendo scomparso il diagramma, la lettera A diventa simile a quella di un digramma più o meno inclinato. In entrambi gli alfabeti coesistono tre segni per le sibilanti: sigma a quattro tratti, sigma a tre tratti e san a farfalla.
La scomparsa del digramma deve essere avvenuta assai presto poichè in un’iscrizione incisa su una Schnabelkanne bronzea da Giubiasco, di fabbrica locale e databile alla seconda metà del IV secolo a.C., è già testimoniata la nuova grafia di A.
Le iscrizioni di IV e III secolo a.C. sono pochissime, per cui i due gruppi di testimonianze epigrafiche leponzie sono separati da un non piccolo intervallo temporale.
Acquisito il fatto che i Golasecchiani del VI e V secolo a.C., vale a dire dei periodi G. II e III A, parlavano un dialetto di tipo celtico, ci si può interrogare sulla data di introduzione nell’Italia nordoccidentale di questo dialetto: è avvenuta verso il 600 a.C. o in epoca più remota? Nel primo caso verrebbe confermata la notizia di Tito Livio (V, 34) di una prima invasione gallica Prisco Tarquinio Romae regnante.
La verifica di questa ipotesi può essere fatta soltanto attraverso l’esame della documentazione archeologica, ma non tutti gli studiosi sono concordi nell’interpretarla. Alcuni sono propensi a riconoscerenegli influssi hallstattiani avvertibili a Golasecca verso la fine del VII e gli inizi del Vi secolo la prova di una immigrazione di genti celtiche.
La documentazione decisiva in questo senso sarebbe fornita dalle due tombe di guerriero di Sesto Calende.
Altri sostengono che non è riscontrabile nella documentazione archeologica alcuna cesura che interrompa la continuità dello sviluppo culturale, in particolare tra VII e VI secolo, per cui non sarebbe giustificabile l’ipotesi di una immigrazione di genti transalpine in questo momento. Di conseguenza il dialetto celtico della cultura di Golasecca rappresenterebbe la prova di una celticità pregallica nell’Italia nordoccidentale, attribuire a popolazioni note dalle fonti antiche come Insubres, Oromobii (o Orumbovii) e Lepontii, e il cui processo di formazione dovrebbe risalire molto più indietro nel tempo, fino all’Età del Bronzo.