et Hannibal…
“Et Hannibal movit ex Taurinis”: è lapidario il tono usato da Tito Livio per fissare l’immagine dell’esercito cartaginese che si allontana da Taurinum, ridotta ad un cumulo di macerie fumanti. Siamo nel 218 a.C., al principio della Seconda Guerra Punica, conflitto di portata mondiale che vide schierarsi su fronti contrapposti Cartagine, la mitica Byrsa (“pelle d’orso”) fondata da coloni fenici di Tiro nell’814 a.C., potenza egemone nel Mediterraneo occidentale a lungo conteso ai Greci, e Roma, intenzionata a proiettare su un’area più vasta il predominio politico già consolidato in ambito italico con la sottomissione delle poleis magno-greche. La presa di Reggio (270 a.C.) portò Roma a contatto diretto con Cartagine, innescando la contesa per il controllo della Sicilia, allora divisa tra la sfera d’influenza cartaginese e quella greca, con linea di confine definita dal fiume Alico. La Prima Guerra Punica si concluse con il passaggio della Sicilia sotto il dominio di Roma, che inquadrò l’isola come “provincia”, attribuendo una connotazione territoriale ad un termine che originariamente designava la sfera di competenza di un qualsiasi magistrato e che, da quest’epoca in avanti, si affermò in Occidente come criterio cardine della distrettuazione amministrativa, e impose come forma di prelievo fiscale la “decima”, confermando un modello già sperimentato da Gerone di Siracusa. Nell’interludio tra la Prima e la Seconda Guerra Punica, il dinamismo della famiglia dei Barcidi prevalse sul moderatismo dei conservatori, desiderosi di accantonare la competizione con Roma per orientare la politica espansionistica di Cartagine verso l’entroterra africano. Ne scaturì un programma di potenziamento della presenza cartaginese in Spagna che riaccese la rivalità con Roma, temporaneamente sopita dalla conclusione del Trattato dell’Ebro (226 a.C.) che tentò di stabilizzare il quadro politico fissando al fiume Ebro il confine tra l’area cartaginese e quella rientrante nell’orbita romana. La città di Sagunto, alleata di Roma sin dal 232 a.C., si trovò inserita nella fascia territoriale assegnata a Cartagine e da questa incongruenza, forse dovuta ad approssimazione o, più probabilmente, ad uno stratagemma della diplomazia romana per riacutizzare la ferita mai del tutto ricucita tra le due superpotenze, derivò il casus belli che causò la ripresa dello scontro, preannunciato dall’assedio posto alla città da Annibale, acclamato generale nel 221.
Respinte le condizioni di pace formulate da Roma (consegna di Annibale e rinuncia a Sagunto), più simili come tenore ad un ultimatum che ad una proposta di accordo, l’esercito cartaginese si apprestò a concretizzare il piano d’attacco predisposto da Annibale, che ruotava attorno all’obiettivo di accerchiare Roma portando la guerra sul suolo italico e raccogliendo l’appoggio delle popolazioni oppresse dalla politica egemonica latina. Emissari insubri avevano già assicurato la propria adesione al disegno anti-romano di Cartagine ma il fronte favorevole ad Annibale avrebbe potuto attrarre a sé tutte gli aggregati etnici o statuali preoccupati dall’espansionismo romano, dalle tribù celto-liguri della Gallia Cisalpina, umiliate a Capo Telamone nel 225, alla dinastia macedone, che vedeva pregiudicati i propri interessi dal ridimensionamento politico della regina illirica Teuta, punita da Roma in quanto fomentatrice degli atti di pirateria che compromettevano la tranquillità dei commerci nell’Adriatico.
L’iscrizione lasciata nel 203 da Annibale nel tempio di Era Lacinia consente di misurare l’equilibrio tra le forze in campo: l’esercito cartaginese constava di 20.000 fanti e 6.000 cavalieri, cui vanno sommate le truppe di stanza in Spagna e in Africa per un totale di 70.000 uomini, cifra grosso modo equivalente alla consistenza numerica delle legioni romane. L’immaginario degli antichi era stato colpito dall’impresa di Annibale sia per la risonanza delle traversie affrontate sulle Alpi dall’esercito cartaginese, composto in larga parte di mercenari numidici, mauri, greci e celto-liguri, sia per il corteo di trentasette elefanti accodati alle truppe che finirono per soccombere alle avversità climatiche, tanto che soltanto un esemplare, malconcio, giunse alle porte di Roma. La visione dei pachidermi non atterrì i Romani, che s’erano già imbattuti nell’esercito del principe dell’Epiro, Pirro, composto, secondo una consuetudine greca, anche di un certo numero di elefanti, ma suscitò sorpresa tra i Celti di montagna.
Del timore misto a meraviglia generato dalle gigantesche sagome è rimasta traccia su un masso scoperto a Mollans (Drôme Provençale) che mostra la figura stilizzata di un elefante, probabilmente eseguita da un Celta che consegnò alla pietra la memoria dell’evento di cui fu testimone. L’incisione, se comprovata nella sua autenticità, deporrebbe a favore della tesi che individua nel colle Mayt il valico scelto dai Punici come punto di attraversamento della catena alpina. Un’altra traccia, interpretata come prova del passaggio annibalico, questa volta per la val Chisone, è riaffiorata durante l’ultima guerra in località Balboutet, frazione di Sestriere, dove vennero alla luce alcune suppellettili di uso militare, una lastra bronzea e una zanna di elefante. I reperti furono occultati e poi trafugati ma rimane, come testimonianza, una dichiarazione giurata dello scopritore, che attesta numero e tipologia dei reperti.
L’effetto intimidatorio esercitato dall’elefante sullo schieramento avversario non era tanto riconducibile alla mole o alla forma inusitata, cui ci si poteva assuefare, quanto piuttosto agli stratagemmi adottati da Greci e Cartaginesi per accentuarne la naturale aggressività. Ad esempio, la somministrazione, prima della battaglia, di un impasto di fichi imbevuto di sostanze alcoliche ne favoriva l’irritabilità. In cinque mesi di marcia Annibale coprì la distanza che separa i Pirenei dalle Alpi e ne impiegò altri quindici per completare la traversata alpina. Tralasciando la vexata quaestio del valico percorso da Annibale, che merita un’analisi a se stante, constatiamo che la maggioranza delle fonti latine sono concordi nel ricondurre al controllo dei Taurini il territorio attraversato dai Cartaginesi al momento di scendere verso la pianura. Da questa premessa deriva l’identificazione di Taurinum con la prima località strategicamente importante, dislocata lungo l’itinerario obbligato che conduceva dalle Alpi alla pianura padana, che oppose resistenza ad Annibale. Polibio, storico greco al servizio degli Scipioni che nel II a.C. ripercorse le orme di Annibale per accertare la corrispondenza delle testimonianze con la reale conformazione dei luoghi, definisce il centro abitato come “la più forte città dei Taurini” mentre Tito Livio lo ricorda come “la sola città dei Taurini, capoluogo di quella gente”.
Esistono, però, fonti isolate che, richiamandosi a Strabone e contraddicendo l’orientamento generale, consacrano la località detta “Ictimulorum vico”, citata dal geografo greco del I d.C., come l’avamposto militare che intralciò la marcia di Annibale, spogliando Taurinum del ruolo storico di prima oppositrice del punico. Il centro indicato da Strabone sarebbe identificabile con Victimula, la “capitale” dei Victimuli o Ictimuli, una popolazione celtica attestata nell’area della Bessa, lungo le pendici biellesi della Serra, dedita all’estrazione dell’oro dalle acque dei torrenti. Malgrado la supposta affinità tra Victimuli e Salassi canavesani, le fonti documentano un rapporto di vicinato travagliato da costanti dissidi, riconducibili alla contesa in atto per l’uso delle acque, trattenute dai Victimuli per l’attività estrattiva e reclamate dalle tribù a valle per l’irrigazione dei campi. L’accoglimento della tesi di Strabone, mancante di elementi di riscontro, ribalterebbe la tesi tradizionalmente sostenuta dagli storici sulla scorta di Polibio e Tito Livio e devierebbe verso nord il percorso seguito da Annibale che, per raggiungere la regione dei Victimuli, avrebbe dovuto attraversare un valico valdostano, come il Piccolo San Bernardo. La localizzazione dell’Ictimulorum Vico è questione irrisolta: alcuni lo identificano con Settimo Vittone, accostando acrobaticamente Vittone a Victimuli, altri spostano il centro più a sud, nei pressi della località detta di Dora Morta, non distante da Santhià. L’area della Bessa, tra l’altro, non offre appigli etimologici che richiamino i Victimuli (etnonimo che deriverebbe dall’accostamento del celtico ik o vik, oggetto acuminato, e della radice ligure o fenicia mol-mul, altura, con il risultato di leggere Victimuli come “coloro che frantumano i monti”, minatori). Il toponimo Bessa deriva, infatti, dall’etnonimo della popolazione dedita all’attività mineraria che, per ordine di Augusto, fu deportata dalla Tracia sud- occidentale in questo angolo di Piemonte che tuttora ne custodisce la memoria.
Plinio, naturalista del I d.C., inquadra i Taurini come popolo di “antica stirpe ligure”, uniformandosi all’opinione di Tito Livio che, però, manifesta incertezza nella catalogazione etnica degli abitanti di Taurinum, classificandoli anche come “Semigalli”. La titubanza delle fonti, che oscillano tra l’etichetta ligure e quella celtica, riflette la complessa ricostruzione dei meccanismi che scandirono il popolamento del Piemonte pre-romano. Lo storico Barbero cataloga i Liguri come discendenti dei palafitticoli che si attestarono sulle sponde acquitrinose dei laghi piemontesi, come Viverone, mentre Enrica Culasso rileva l’uniformarsi graduale delle forme di insediamento liguri a quelle celtiche. Il quadro è complicato dall’analisi linguistica che ipotizza l’origine pre-indoeuropea di alcuni vocaboli entrati a far parte del patrimonio linguistico piemontese, come “balma” (riparo sotto la roccia) o l’idrotoponimo “Dora” (acqua). Balza all’occhio la difficile conciliabilità di queste teorie con la matrice certamente indoeuropea dei Liguri. La reciproca acculturazione tra tribù liguri e tribù celtiche, che diede luogo ad una commistione armonica di pratiche e stili di vita, non si manifesta con la stessa intensità sull’intero territorio piemontese, come dimostra l’effetto di cesura attribuito dagli storici al fiume Po, che fu elemento naturale di separazione tra le aree del Piemonte meridionale meno interessate dalle infiltrazioni galliche e quelle settentrionali che rivelano un maggiore grado di permeabilità alla colonizzazione celtica. Il territorio occupato dai Taurini, che s’ipotizza più vasto all’epoca di Annibale che non nell’età di Augusto, quando la romanizzazione dell’area si fece più capillare e si stabilì la mansio ad fines per la riscossione della Quadragesima Galliarum in corrispondenza dell’antica linea di confine tra Segusini e Taurini attestata in corrispondenza della Chiusa di San Michele, coincide grosso modo con l’odierno Piemonte nord-occidentale, classificato dagli storici come “areale taurino-salasso”. Qui, il sostrato ligure cui allude Plinio si alterò in conseguenza dell’infiltrazione graduale di gruppi gallici transalpini che, a partire dall’VIII secolo a.C., si stabilirono nell’area, precorrendo i tempi della la grande invasione gallica del V secolo e lasciando tracce del loro popolamento nelle pratiche funerarie, che attestano la forte esposizione di queste popolazioni subalpine all’influsso dei modelli culturali d’Oltralpe.
Dall’VIII secolo, tra Torinese, Canavese e Biellese, si registra un allontanamento dalle pratiche golasecchiane che si manifesta nella comparsa di una tipologia tombale strutturalmente affine ai modelli della cultura transalpina di Hallstatt, composta da un tumulo con una stele conficcata in verticale come segnacolo funerario. L’epigrafe identificativa, veicolo di preziose informazioni sulla sopravvivenza dell’onomastica celtica in età romana, era corredata dai lineamenti del defunto schematicamente tratteggiati sulla pietra, come nel caso della lastra tombale di “Secundina Aebutia”, riutilizzata in epoca alto-medievale come architrave d’ingresso del battistero canavesano di San Ponso. L’assenza di ceramiche etrusche nei corredi funerari, unitamente alla presenza di manufatti di fattura marsigliese, punto di contatto tra mondo greco e mondo celtico, confermano l’isolamento dell’areale taurino-salasso, esente da frequentazioni commerciali o politiche con l’ambito italico, e attestano il suo volgersi alle regioni transalpine come interlocutrici sul piano dei rapporti economici e culturali.
Che i Taurini, come le altre popolazioni celto-liguri del Piemonte antico, fossero proiettati verso le regioni d’Oltralpe è ulteriormente comprovato dal fatto che fosse più semplice avventurarsi lungo gli itinerari montani che non addentrarsi nell’ambiente paludoso delle bassure padane. La vocazione alpina dei Taurini è sottolineata in più occasioni dai commentatori antichi, che li inquadrano come una popolazione attenta, nell’insediarsi sul territorio, al valore strategico dei fiumi, fondamentali vie di comunicazione (il primo aggregato proto-urbano di cui si abbia traccia in Piemonte è quello celtico di Castelletto Ticino, arroccato in posizione dominante sulla sponda occidentale del Ticino), ma nel contempo impegnata ad estendere la propria egemonia verso i valichi alpini occidentali. Lo stesso etnonimo “Taurini”, che è rimasto cristallizzato nella titolatura moderna della città (obliterando le tracce di “Augusta”, prevalente invece in “Aosta”), andrebbe sciolto dal legame con il toro, considerato dall’immaginario comune come antenato totemico o come rappresentazione zoomorfa di un dio-toro venerato dalle tribù celto- liguri (forse identificabile con Pen, dio delle alture, da cui “Alpi Pennine”, associato alla personificazione del fulmine e del tuono e integrato nel pantheon romano come Giove Pennino, declinazione locale del culto capitolino). Enrica Culasso rintraccia, invece, l’origine dell’etnonimo nella radice pre-latina “tauro”, equivalente al latino “montanus”, cioè abitante di sedi d’altura, montanaro, dando ulteriore conferma del vincolo che legava strettamente i Taurini alla frastagliata cornice alpina che disegna l’orizzonte cittadino.
La Taurinum travolta da Annibale non apparve ai suoi occhi come un organismo cittadino “compiutamente organizzato” a dispetto del termine “città” usato dalle fonti latine, che si rivela inadatto ad inquadrare la realtà del popolamento taurino, che era piuttosto assimilabile ad una struttura insediativa proto-urbana, un’aggregazione di villaggi composti di capanne di legno o di mattoni crudi sovrapposti senza leganti a pietre di fiume che si richiamavano ad un centro più esteso riconoscendogli il ruolo di punto di riferimento amministrativo, ricetto militare e area di smistamento delle merci. Che la struttura di Taurinum rispecchiasse questi parametri e fosse ancorata ad uno stadio di sviluppo proto-urbano è comprovato anche dall’incerta localizzazione della capitale taurina, che non ha lasciato tracce rilevanti di sé sul terreno. Alcuni la immaginano dislocata sul terrazzo naturale che dominava la confluenza della Dora Riparia con il Po a sfruttare in funzione di barriera difensiva lo sbalzo di quota tra la piana acquitrinosa e l’altura sovrastante (i Taurini si sarebbero così limitati a fortificare i lati indifesi, a sud e ovest); altri la localizzano sulle propaggini collinari orientali o meridionali attribuendo valore probatorio alle tracce di popolamento pre-romano riscontrate in zona.
Altro aspetto discusso dell’impresa di Annibale riguarda l’esatta collocazione cronologica dell’assedio di Taurinum, che durò tre giorni. La cronaca di Polibio ci offre un appiglio, ricordando che l’approssimarsi di Annibale al valico alpino avvenne verso il “tramonto delle Pleiadi”. Polibio usa come riferimento per la datazione le Pleiadi, una costellazione che compare nel cielo da maggio sino alla prima decade di ottobre, facendo ritenere verosimile la collocazione della presa di Taurinum nell’autunno inoltrato del 218 a.C.. L’ultimo punto dibattuto riguarda le ragioni che determinarono la decisione taurina, suicida a giudicare dalla sproporzione tra le forze in campo, di impedire l’avanzata di Annibale attraverso il proprio territorio, respingendo le offerte di amicizia manifestate dagli emissari del cartaginese. Ad oscurare le ragioni che giustificarono l’eroismo taurino incide sia la povertà di informazioni riguardanti gli equilibri interni alle tribù celto-liguri sia l’orientamento ideologico degli autori. Giovanni Paisiello, ad esempio, riprese l’assedio di Taurinum come tema della composizione musicale “Annibale in Torino” basata sul libretto dell’avvocato di Santhià Jacopo Durandi (la cui effigie si ritrova nella seconda campata della Biblioteca Reale, riservata ai cultori dell’antiquaria) e rappresentata al Teatro Regio durante il carnevale del 1771. L’opera celebra la ricorrenza del matrimonio tra il conte di Provenza Luigi Stanislao Saverio di Borbone, futuro Luigi XVIII, (identificato con Oscarre, re degli Allobrogi, che scorta Annibale al di qua delle Alpi ma parteggia per i Taurini in nome delle comuni radici etniche, che sono poi le stesse che uniscono Savoia e Piemonte in un’unica compagine statuale, sotto lo scettro sabaudo), e la principessa sabauda Maria Giuseppina, ma si propone anche di mettere in scena la magnificazione delle virtù taurine, rappresentate come una superficie riflettente che restituisce l’immagine, proiettata all’indietro di secoli, delle qualità morali e delle attitudini militari esibite dalla moderna Torino alle prese con l’assedio francese del 1706. Il dramma, asservito a finalità propagandistiche, attinge dalle fonti classiche ma rivisita e integra i fatti a seconda delle esigenze imposte dalla trama o dall’intonazione celebrativa dell’opera. Annibale, riconoscendo le qualità morali del re taurino Atrace, libera la città dall’assedio ma l’epilogo gioioso stride con il reale andamento dei fatti, che videro la distruzione di Taurinum e il massacro degli abitanti.
L’Historia dell’augusta città di Torino, composta da Emanuele Thesauro e da altri autori tra il 1679 ed il 1712, interpreta invece la resistenza taurina come espressione di un orientamento filo-romano, che si pone in controtendenza con l’adesione pressoché generalizzata delle tribù cisalpine al piano cartaginese. In realtà, l’isolamento dell’areale taurino-salasso, digiuno da contatti con l’ambito italico, e il contesto politico del tempo depongono a sfavore di questa tesi. Altri storici leggono nella resistenza taurina il riflesso delle lotte che travagliavano i rapporti tra gruppi liguri e tribù celtiche e che avrebbero motivato i “semiliguri” Taurini a distinguersi dall’orientamento filo- cartaginese espresso dalla maggioranza degli aggregati celtici. Anche questa tesi è da respingere perché mancano prove di attriti tra Celti e Liguri in un periodo come la fine del III a.C. che mostra un elevato grado di integrazione tra i due elementi, come dimostra la qualifica di “Semigalli” attribuita da Livio ai Taurini o l’etichetta di “città celtica” riconosciuta a Taurinum da altre fonti. La ragione dell’opposizione taurina va invece ricercata nelle contese territoriali che da tempo contrapponevano Insubri e Taurini e che influirono sul gioco delle alleanze. Emissari insubri avevano preso contatto con Annibale, assicurandogli il proprio appoggio, già dall’inverno del 219, e questo allineamento tra Cartaginesi e Insubri provocò come reazione la diffidenza dei Taurini verso Annibale, che venne percepito non tanto come paladino dei popoli oppressi da Roma, depositaria di un potere ancora distante, bensì come alleato dei nemici Insubri. I Taurini, sentendosi accerchiati da nemici in combutta contro di loro, si chiusero a difesa della propria città e, solo per un sentimento di avversione verso gli Insubri, si opposero ad Annibale, che colse l’occasione, attraverso l’annientamento di Taurinum, per ammonire tutti gli altri popoli a non ostacolare la sua spedizione verso Roma. Questa sembra l’interpretazione che meglio si conforma alla realtà del tempo, senza indulgere ad anacronismi o a letture ideologicamente orientate.
Paolo Barosso