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Un po’ di storia

Il primo a stupirsi dei Taurini fu Annibale, che scendendo dalle Alpi tutto si aspettava tranne il veder rifiutate le sue offerte di amicizia e di alleanza da parte di una tribù piccola, sparsa in villaggi ai piedi della Alpi, dedita all’allevamento e all’agricoltura di sussistenza. Era il 218 avanti Cristo: il condottiero cartaginese proveniva dalla Spagna, aveva attraversato il Rodano e si accingeva a colpira Roma prima che i legionari sbarcassero in Africa. Alle costole aveva il console Publio Cornelio Scipione, che approdato alla foce del Rodano, risaliva il fiume per intercettarlo. Ma l’esercito cartaginese fu più rapido: sottrattosi al combattimento, era entrato nel cuore della Gallia, abbandonando la Durace (da dove avrebbe potuto raggiungere facilmente il Monginevro) e aveva cercato un valico più a Nord. Sul nome di quel misterioso passaggio a Nord-Ovest gli storici stanno ancora litigando.
Mentre Scipione sbarcava in Etruria e si accingeva ad andargli incontro attraverso il Po, Annibale trovò – unico fra le genti di quelle terre – l’ostacolo imprevisto di un popolo montanaro, come scrive Livio, appartenente all’”antica stirpe dei Liguri”. L’esercito di Annibale aveva bisogno di riposo, era sfinito dal passaggio delle montagne: quindi il condottiero non sottovalutò i Taurini e scese a patti. Ma la diffidente “città più forte dei taurini” (il villaggio celto-ligure non era esattamente dove sorse la colonia romana ma verso gli sbocchi padani della Valle di Susa), era nemica degli Insubri, alleati dei Cartaginesi. Prese dunque la decisione impossibile di opporsi a un esercito preparato a ben altri avversari. Dopo tre giorni di assedio la leggendaria città celtica di Taurasia, come la chiamerà Appiano, venne saccheggiata e uscì per un secolo e mezzo dalla storia, con il sigillo della laconiche parole di Livio: “Et Hannibal movit ex Tauriniis”.
I Taurini, dunque furono i primi difensori della penisola dalla minaccia punica. La vocazione storica a sorprendere (o, per dirla in termini più regionali, lo spirito da “bastian contrario” della città) stupirà per secoli sovrani, politici e viaggiatori. Torino città-femmina, con la fertile vocazione all’indipendenza. Città madre, come raccontava nei suoi sermoni il primo vescovo Massimo e come testimoniavano le sue antiche divinità celtiche, le matrone, che vegliavano dall’alto del Monginevro impersonando la fecondità della natura a la rigenerazione del mondo vegetale e animale, ma anche divinità tutelari dei confini e nei luoghi di passaggio nei distretti alpini. Anche oggi Torino mantiene molti di questi caratteri: si lascia soggiogare ma continua a pensare con la sua testa, è piena di ritegno ma capace di stupefacenti colpi d’ala, in bilico com’è tra il diavolo e l’acqua santa, tra razionale ed irrazionale. [..]

Carlo Grande, Torino, ed. Priuli & Verlucca, 2004

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