Le bevande inebrianti dei Celti
Produzione e consumo.
Le analisi paleonutrizionali condotte su campioni di resti umani di cremati e lo studio dei reperti faunistici rinvenuti nei vari siti in Italia nord-occidentale negli ultimi anni restituiscono uno spaccato sufficientemente chiaro dell’alimentazione nel corso dell’età del Ferro, indicando una dieta povera di apporti carnei e fortemente dipendente dal consumo cerealicolo. I cereali venivano consumati con grande frequenza sotto forma di focacce, di zuppe o di minestre.
Le analisi paleobotaniche inoltre hanno permesso di evidenziare la presenza di pollini di vite; in particolare a Castelletto Ticino (NO), loc. Cascina Novelli, in un contesto stratigrafico databile tra la fine del VII secolo a.C. e gli inizi del VI secolo a.C., sono stati rinvenuti vinaccioli carbonizzati di vite coltivata (Vitis Vinifera vinifera).
Si ritiene che le varietà di vite coltivata che giunsero a colonizzare la Cisalpina provenissero da progressivi adattamenti di vitigni etruschi, gia acclimatati nel tempo alle zone interne ed appenniniche e perciò più resistenti ai rigori degli inverni padani. A partire dall’Emilia, nella prima età del Ferro, appare evidente anche da un punto di vista archeologico un lento ma costante diffondersi della viticoltura: oltre ai ritrovamenti archeobotanici, i corredi tombali vedono moltiplicarsi forme ceramiche a funzione potoria non giustificate dal consumo del solo vino d’importazione. Il commercio del vino era del resto notoriamente uno degli elementi economici più caratterizzanti, insieme all’artigianato di pregio e alle grandi anfore vinarie dell’interscambio commerciale tra Etruschi e Celti d’Oltralpe. L’accusa, topica nelle fonti antiche, agli Etruschi di aver causato l’invasione gallica proprio avendo diffuso la conoscenza del vino in area celtica, sembra testimoniare l’importanza di questo commercio di anfore vinarie fin dalla fine del VI secolo a.C. veicolate lungo l’asse del Rodano e della Saône fino ai centri dell’interno (Avaricum/Bourges) dalla colonia greca focese di Massalia (Marsiglia).
Infine nella necropoli di Pombia, nel Novarese, all’interno di un bicchiere accessorio al corredo del defunto, collocato entro l’urna cineraria, è stato rinvenuto un residuo anidro di una bevanda di colore rossiccio con una notevole prevalenza di orzo associato a percentuali minori di erbe aromatiche, in particolare il luppolo. A Pombia sembrerebbe dunque di poter riconoscere un’aggiunta “sperimentale”di luppolo alla bevanda come aromatizzante e conservante e forse la prima evidenza archeologica della birra rossa, la cosiddetta cervisia citata dalle fonti classiche.
La birra bevuta nel Novarese intorno al 550 aC. da queste comunità protoceltiche, ben prima delle invasioni storiche dei Galli degli inizi del IV secolo a.C., può essere forse assimilata a certi tipi di birre attuali di colore scuro ben filtrate tanto da giustificarne la definizione degli antichi come “vino d’orzo”.
La produzione e il progressivo consumo di vino e birra tende a ridurre progressivamente l’utilizzo della più antica bevanda alcolica conosciuta, l’idromele, sacro nel mondo celtico, poco attestato in ambito cisalpino, come sembra testimoniato dalla scarsissima presenza in ambito nord-occidentale, rispetto a confronti transalpini, di vasi potori stretti ed alti adatti alla conservazione dell’effervescenza anche con l’impiego di molto miele.
dott. S. Padovan
Per approfondire:
Gambari F.M., 1994, Le origini della viticoltura in Piemonte: la Protostoria, in Vigne e vini nel Piemonte antico, a cura di R. Comba, pp. 17-41
Gambari F.M., 2001, La bevanda come fattore economico e come simbolo: birra e vino nella cultura di Golasecca, in La birra e il fiume. Pombia e le vie dell’Ovest Ticino tra VI e V secolo a.C., a cura di F.M. Gambari, Torino pp. 141-151