Sedotti da vino, fichi e sole
In occasione della grande mostra ‘I Celti’ tenutasi a Palazzo Grassi di Venezia, Daniele Vitali scrive per ‘La Stampa’ (1991) un sintetico ed efficace quadro dell’invasione celtica in Italia
La storiografia antica considera i celti d’Italia una realtà estranea in un corpo formato dai popoli italici radicati ai propri territori da molti secoli.
Una parte della storiografia moderna si è adeguata a tale impostazione del problema, condizionata dal fatto che i celti d’Italia – o meglio i galli, come li chiamavano i romani – erano identificati come l’insieme di popoli che nel giro di pochi anni, tra la fine del V e gli inizi del IV secolo a. C., si erano riversati con ondate successive dall’Europa transalpina all’area italiana. Il loro affacciarsi sull’Italia viene presentato come un’invasione talmente improvvisa e inarrestabile, che la stessa Roma, dopo avere subito la distruzione totale dei propri eserciti, dovette sopportare persino un’occupazione della città e del territorio durata più di sette mesi.
I risultati delle ricerche di discipline apparentemente diverse tra loro come la linguistica e l’archeologia, in questo caso unite dalla medesima finalità – quella della ricostruzione storica – sono in grado attualmente di modificare in parte la rigidità con cui era visto sinora il problema. La prima novità è fornita dall’interpretazione – dovuta ad Aldo Prosdocimi – di una monumentale iscrizione scritta in alfabeto nord-etrusco, incisa su una delle facce di un architrave in pietra, lungo 3,75 metri, trovato a Prestino presso Como.
L’iscrizione datata alla fine del VI secolo a. C. si situa in uno dei più importanti ‘distretti’ della regione occupata dalla cultura di Golasecca, una delle principali culture dell’Età del ferro dell’Italia settentrionale nella quale finora non era ancora stato possibile identificare un popolo sicuro.
La civiltà paleoveneta corrispondeva al popolo dei veneti, quella villanoviana agli etruschi, quella di Golasecca a popoli ‘misteriosi’ che andavano, ora sotto il nome di leponzi, ora sotto quello di liguri e di altri ancora. La determinazione fatta dai linguisti che la lingua e il lessico e i nomi personali dell’iscrizione di Prestino sono celtici porta a concludere che la civiltà di Golasecca corrisponde a un settore dell’Italia del nord dove risiedavno popolazioni che parlavano una lingua celtica e avevano nomi celtici, già alcuni secoli prima della grande invasione che raggiunse Roma.
Quella di una celticità dell’Italia nord-occidentale, più antica di quella ricordata dalle fonti storico-letterarie è dunque la prima scoperta che pone in una nuova prospettiva la storia dei celti in Italia. I celti di Golasecca sono allora i celti con cui entrarono talvolta in conflitto gli etruschi, che secondo Tito Livio avrebbero avuto scontri armati sul Ticino (e cioè al confine tra mondo ‘golasecchiano’ e mondo dell’Etruria padana) ma con cui essi avevano sicuramente intrattenuto rapporti economici e commerciali.
Anche nel territorio dei veneti il V sec. a. C. vede l’ingresso e il definitivo inserimento di personaggi di origine celtica: un certo Tival – Bellen – che va ad abitare a PAdova, adeguandosi alle consuetudini della comunità nella quale si era innestato, a inizare dalla ‘venetizzazione’ del nome del proprio figlio. Lo stesso fenomeno di inserimento può essere colto nella comunità etrusca di Bologna nelle cui necropoli si trovano alcuni corredi tombali con armi celtiche, molto più antiche della fase delle invasioni.
Analoghe situazioni, infine, possono essere prospettate – anche se su questo fatto le voci degli specialisti sono meno concordi – per realtà dell’Etruria tirrenica (Orvieto, Cerveteri) o della Liguria (Genova) dove alcune iscrizioni documenterebbero la presenza di individui stranieri di origine celtica. Il dibattito è dunque avviato così come una nuova prospettiva di ricerca.
Le relazioni commerciali e politiche tra i popoli italici – in primis gli etruschi – e le famiglie di rango transalpine, avevano consentito l’arrivo di materie prime (lo stagno, il sale, l’ambra) ma allo stesso tempo avevano accorciato le distanze tra due mondi che erano bene in vista l’uno dell’altro, il più meridionale dei quali affascinava l’altro per la bontà del clima e la qualità dei prodotti agricoli.
I fichi e il vino con cui – secondo Livio (V, 33, 2-4) – un etrusco di Chiusi di nome Arrunte avrebbe attirato in Italia i celti, facendoli giungere dall’area transalpina alla propria città per vendicarsi di un torto subito da parte di un giovane della nobiltà chiusina, rappresentano lo stesso motivo di persuasione utilizzato, qualche tempo prima, questa volta non da un etrusco ma da un celta: un fabbro ferraio di nome Elicone che aveva soggiornato e lavorato a Roma nel V secolo a. C. Questi aveva portato presso il suo popolo, gli elvezi, fichi secchi, vino, uva e olio e aveva in tal modo sollecitato i movimenti migratori (Plinio, XII, 5).
Ragioni economiche legate alla necessità di possedere terre da coltivare e da far produrre sembrano dunque le principali motivazioni delle migliaia di uomini, donne e bambini, che si affacciano nell’area padana tra la fine del V e il IV secolo a. C.
Il popolo degli insubri occupa l’area dei celti della cultura di Golasecca con cui gli insubri scoprono un’antica parentela, mentre i cenomani occupano i territori compresi tra insubri e veenri, a sud del Po si insediano i boi, un popolo forte di ben centododici tribù, stando a quello che scrisse Catone, che estendeva il proprio dominio dall’Emilia occidentale alla Romagna. Più a sud, ancora, il popolo dei senoni – i celti che ebbero un ruolo di primo piano nella conquista di Roma – stanziati nelle Marche, tra l’Appennino e il mare.
Altri celti scesero ancora più a sud, ma di essi non restano tracce archeologiche percepibili: una ricca tomba di guerriero scoperta a Canosa di Puglia e contenente un elmo di ferro decorato da fasce di bronzo sbalzate e incrostate con corallo, documenta la presenza nell’Apulia di mercenari transalpini, che forse furono al servizio di Dionisio di Siracusa, un tiranno che nella prima metà del IV sec. a. C. aveva conquistato gran parte delle città greche della Magna Grecia.
In questo sovrapporsi di popoli stranieri a popolazioni italiche le fonti antiche hanno visto una sorta di totale ricambio etnico, al punto che in certi territori si dice che le popolazioni preesistenti fossero completamente sparite. E’ per esempio, il caso degli etruschi dell’§Etruria padana, che Livio dice ‘completamente estromessi dai celti’. In realtà la revisione di vecchi dati di scavo relativi alle necropoli galliche di Bologna (di uci è terminata la nuova edizione scientifica) o l’acquisizione di nuovi e ricchi complessi da necropoli del territorio bolognese – nel caso specifico a Monte Bibele (Monterenzio, Bologna) – consentono di smentire tale drastica conclusione. A Bologna (la gloriosa Felsina ‘princeps Etruriae’) assieme alla comunità celtica abitavano individui di nome e lingua etrusca e a Monte Bibele alcune donne etrusche avevano sposato addirittura capi guerrieri celti, contribuendo ad attenuare – se mai vi fu – il contrasto tra componenti sociali o culture diverse.
L’aspetto rilevante della documentazione archeologica del IV e III secolo a. C. dell’area italiana è quello della perdita di molti connotati ‘tipo La Tène’ propri dell’area celtica transalpina compensata da una forte assimilazione delle abitudini e dei rituali di origine greco-etrusca.
Mentre nel mondo dei cenomani, per esempio, è possibile trovare equivalenze e corrispondenze quasi puntuali con realtà nord-alpine, ad esempio nell’abitudine delle donne di portare al collo un torquis metallico e un numero diverso di braccialetti sulle due braccia, nel mondo dei senoni ciò è quasi impossibile a cogliersi, in questa realtà solo le armi costituiscono un indizio di celticità: quasi nessuna fibula, pochi torque appartenenti alla fase finale delle necropoli (a parte il caso eccezionale del torquis d’oro decorato di Filottrano). Totale e senza ripensamenti sembra invece il livello di assimilazione dei costumi e dei modi di vita del mondo ellenistico, al punto che, se le fonti storiche non ci confermassero che abbiamo a che fare con popoli di origine celtica, penseremo a genti italiche.
Molto importanti risultano le scoperte che si stanno effettuando a Monte Bibele, nell’Appennino tra Bologna e Firenze, dove intorno alla metà del IV secolo si trovano a convivere due realtà etnicamente e culturalmente diverse: gli etruschi, radicati nel territorio padano da molte generazioni, e i celti giunti come guerrieri e con tale ruolo rimasti nella comunità, probabilmente anche per i vantaggi che derivavano dal tenere sotto ocntrollo una importante direttrice commerciale che dall’area padana raggiungeva l’Etruria passando per la valle dell’Idice, ai piedi di Monte Bibele.
Un abitato con case in pietra e alzato in legno, una vasta necropoli ancora in corso di scavo, due santuari, uno etrusco e l’altro celtico, permettono di cogliere la microstoria di una realtà mista di due-trecento persone, vissute nella zona per circa duecento anni. Le armi, le spade e le lance, gli elmi metallici decorati con smalti, le fibule e gli anelli, i braccialetti di vetro conservati nel Museo di Monterenzio sono perfettamente confrontabili coi tipi transalpini, e questo fatto ribadisce il dinamismo delle relazioni e dei contatti proprio della componente celtica che abitò Monte Bibele.
Con l’inizio del III secolo, prende il via, drammaticamente, il progetto di Roma di conquistare l’Italia continentale, eliminando le popolazioni celtiche (o celto-italiche) ivi residenti. Tra i celti, solo i cenomani si alleano con Roma o mantengono una posizione di neutralità. Progressivamente, ma inesorabilmente, vengono sconfitti i senoni, il cui territorio nel 232 a. C. viene confiscato e assegnato a cittadini romani, nei decenni successivi anche i boi vengono progressivamente sottomessi e con essi gli insubri. Gli uni e gli altri avevano sperato che l’arrivo di Annibale in Italia avrebbe ribaltato la situazione dell’egemonia tenuta da Roma, ma purtroppo, nonostante gl iiniziali successi militari degli eserciti celtici, i romani ebbero la meglio.
Nel 196 venne completato l’assoggettamento del territorio insubre con la conquista della città di Como e nel 189 venne occupata Bologna, dove fu fondata la colonia latina di Bonomia. Stando ad alcune fonti antiche, una parte delle popolazioni boiche emigrarono nell’area danubiana, al punto che secondo Plinio (III, 116) nel I secolo d. C. i boi erano uno dei più grandi popoli scomparsi dell’area padana